Il cervello dei Delfini è da sempre considerato uno dei più complessi e di dimensioni in proporzione maggiori rispetto al resto del corpo, con dimensioni paragonabili a quelli di una scimmia antropomorfa. Rispetto a quello umano il cervello dei delfini è anch’esso composto da due emisferi, ma con una minore componente di corteccia. Dei due emisferi almeno uno, in alternanza, rimane sempre sveglio, permettendo la respirazione, in questi animali solo volontaria. Tale sviluppo e complessità del cervello è da molti scienziati valutato come sinonimo di intelligenza e grandi potenzialità, anche di linguaggio, mentre per altri tali caratteristiche permettono loro solo la capacità di svolgere curiose attività motorie, tipo il “camminare” all’indietro sull’acqua utilizzando la coda come perno. Un’ulteriore caratteristica del cervello dei delfini è l’assenza di una replicazione dei neuroni, molto simile a quella che avviene in quello umano, ove invece ogni tentativo di riparazione è supportato dalla neuroplasticità, cioè la capacità di assumere caratteristiche e funzioni di altre cellule neuronali, solo limitatamente caratterizzata da replicazioni cellulari.

Una recente ricerca, svolta dal Gruppo di Ricerca del prof. Luca Bonfanti del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi (NICO) con sede ad Orbassano, focalizzata sull’importanza dello studiare il cervello dei delfino per meglio capire la plasticità neuronale (e l’evoluzione) umana, è stata pubblicata sulla Rivista Brain Structure  and Function.

Leggiamo il Comunicato Stampa relativo a tale ricerca:

La neurogenesi è legata all’esistenza della funzione olfattiva: lo hanno dimostrato i ricercatori del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi-Università di Torino con un lavoro di 4 anni sui delfini, che non hanno olfatto.

Da circa due decenni sappiamo che alcune aree del cervello dei Mammiferi (uomo compreso) sono in grado di generare nuovi neuroni anche nell’individuo adulto. Nel corso degli anni, lo sforzo congiunto di numerosi laboratori ha cercato di sfruttare questa “neurogenesi adulta” per riparare i danni cerebrali, ma i processi riparativi e rigenerativi sembrano scomparsi dal nostro cervello a causa di scelte evolutive.

Da tempo si ipotizza che la plasticità neurogenica sia legata esclusivamente a funzioni fisiologiche, come la memoria, l’apprendimento e la capacità di adattarsi all’ambiente. Nei topi e nei ratti (animali da laboratorio) la zona cerebrale più attiva sotto questo profilo fornisce nuovi neuroni al bulbo olfattivo: l’area cerebrale che percepisce gli odori e che pertanto è legata alla sopravvivenza dell’animale (ricerca del cibo, percezione dei predatori e sfera riproduttiva). Nell’uomo, in cui l’olfatto è diventato meno importante per la sopravvivenza, questa regione è meno attiva e da alcuni considerata “vestigiale”.

Per risolvere l’enigma, il gruppo di ricerca del prof. Luca Bonfanti del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi (NICO, con sede a Orbassano, Torino) ha deciso di studiare la stessa regione cerebrale nei delfini, sapendo che questi mammiferi acquatici non hanno olfatto (lo hanno perso 40 milioni di anni fa, sostituendolo con l’eco-localizzazione). In un lavoro durato 4 anni, interamente realizzato al NICO e grazie al dottorato in Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, sono state analizzate 12.000 fettine di cervello appartenente a 10 delfini (neonati e adulti). I risultati, pubblicati sulla rivista Brain Structure & Function, confermano che la regione esiste, ma non produce neuroni (fenomeno mai osservato in altre specie animali).

L’assenza di neurogenesi adulta nei delfini (in realtà mancante già dalla nascita) dimostra che il fenomeno è indissolubilmente legato all’esistenza della funzione olfattiva. Ma la persistenza di un residuo vestigiale della regione originaria (l’antenato dei delfini attuali era un mammifero terrestre anch’esso dotato di olfatto, poi passato all’ambiente acquatico) indica una progressiva perdita delle capacità neurogeniche nel corso dell’evoluzione, confermando la tendenza ipotizzata nell’uomo.

«Questi risultati – afferma il coordinatore della ricerca Luca Bonfanti del NICO – non escludono che la ricerca possa riuscire, un giorno, a modulare a scopo terapeutico i residui di attività neurogenica rimanenti nell’uomo, e chiariscono un dubbio che ha assillato per decenni i neuroscienziati: perché la neurogenesi diminuisce in specie longeve e con cervello grande, come la nostra!».

Inoltre, lo studio conferma il fascino di una linea di ricerca, quella relativa alla plasticità cerebrale, che continua a riservare nuove sorprese e che potrebbe indicare come mantenere un cervello giovane nonostante il progressivo allungamento dell’aspettativa di vita.

 

Key Words:   Neuroplasticità   –   Brain

Inserito il 10 Aprile 2017   –   Testo by giuliani gian carlo e Comunicato Stampa   –   Foto by giuliani gian carlo (del 09 Aprile 2017 presso Acquario di Genova)